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Accesso all'offerta tecnica e segreti industriali o commerciali

Cartella con i documenti e un lucchetto | Foto Gratis

di Avv. Andrea de Bonis

Il caso

Il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n. 369 del 20 gennaio 2022, si è pronunciata in merito ad una domanda di accesso, formulata ai sensi dell’art. 116, comma 2, Cod. proc. amm., proposta per ottenere l'offerta tecnica dell'aggiudicatario.

Il concorrente secondo classificato, ritenendo illegittimo l’esito della gara, si rivolgeva al TAR Lazio per chiedere l’annullamento dell’aggiudicazione sotto plurimi profili; in via incidentale formulava istanza di accesso, ai sensi dell’art. 116, comma 2, Cod. proc. amm., al fine di ottenere l’ostensione di vari documenti, tra cui l’offerta tecnica nel suo complesso. La stazione appaltante, anche sulla base dell’opposizione in tal senso manifestata dalla stessa prima classificata, aveva reso accessibile l’offerta in maniera solo parziale, in ragione della presenza di alcuni dati di carattere tecnico, aventi natura strettamente riservata.

Rigettata l’istanza di accesso incidentale da parte del giudice di primo grado, veniva interposto l’appello.

Il Giudice di appello ha rilevato che il provvedimento di accesso parziale (ed ancor prima l’atto di opposizione all’accesso della prima classificata) non recava una specifica motivazione circa le ragioni sottese all’esigenza di tutelare segreti di natura tecnica o commerciale.

Ha poi rilevato che l’istanza di accesso in esame non meritava accoglimento in ragione della sua estrema genericità.

Il Consiglio di Stato ha rigettato la domanda, in quanto l’appellante non ha sufficientemente dimostrato il necessario nesso di strumentalità o di stretta indispensabilità tra la documentazione oggetto dell’istanza e le censure formulate, ossia l’effettiva concreta utilità di ottenere la documentazione richiesta in versione integrale.

In una fattispecie connotata da simili elementi di peculiarità (peculiarità data dalla contestuale presenza di una generica istanza di accesso cui fa da contraltare un provvedimento di rigetto parziale della medesima istanza non specificamente motivato), tale mancata dimostrazione è stata ritenuta determinante per il rigetto dell'azione proposta.

In altri termini, il bene della vita perseguito (ossia la conoscenza dell’offerta tecnica nella sua integralità) non competeva a parte appellante.

L’accesso all'offerta tecnica

La disposizione di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici), la quale si pone in termini di specialità e di coerente sviluppo normativo rispetto all’art. 24 della l. n. 241 del 1990, prevede:

a) al comma 5, in chiave di principio generale, che sono escluse dal diritto di accesso quelle “informazioni fornite nell’ambito dell’offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali”;

b) al comma 6, in termini di eccezione rispetto al predetto principio generale, che “è consentito l’accesso al concorrente ai fini della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto”.

Costante è l’orientamento giurisprudenziale (ex multis, Cons. Stato, V, 26 ottobre 2020, n. 6463; V, 21 agosto 2020, n. 5167; V, 1° luglio 2020, n. 4220; V, 28 febbraio 2020, n. 1451; V, 7 gennaio 2020, n. 64) secondo cui la ratio della norma consiste nell’escludere dall’accesso quella parte dell’offerta strettamente afferente al know how del singolo concorrente, vale a dire l’insieme del “saper fare” costituito, in particolare, dalle competenze e dalle esperienze maturate nel tempo che consentono, al concorrente medesimo, di essere altamente competitivo nel mercato di riferimento.

È vietato l'uso emulativo del diritto di accesso, finalizzato unicamente a giovarsi di specifiche conoscenze industriali o commerciali acquisite e detenute da altri. Ciò anche in considerazione del fatto che la partecipazione ai pubblici appalti non deve tramutarsi in una ingiusta forma di penalizzazione per l'operatore economico che, altrimenti, correrebbe il rischio di assistere alla indiscriminata divulgazione di propri segreti di carattere industriale e commerciale.

Condizione di operatività dell’esclusione dall’accesso agli atti è data dalla “motivata e comprovata dichiarazione” da parte del concorrente interessato a far valere il suddetto segreto tecnico o commerciale; la stessa peraltro non opera laddove altro concorrente dimostri che l’ostensione documentale è finalizzata alla difesa in giudizio dei propri interessi (c.d. accesso difensivo).

Occorre, al fine di poter ottenere l’accesso agli atti, dimostrare la “assoluta indispensabilità degli elementi coperti da segreto” al fine di corroborare la difesa dei propri diritti o interessi legittimi.

In quest’ultima direzione è essenziale dimostrare non già un generico interesse alla tutela dei propri interessi giuridicamente rilevanti quanto, piuttosto, la “stretta indispensabilità” della documentazione per apprestare determinate difese all’interno di uno specifico giudizio.

La valutazione di “stretta indispensabilità” costituisce il criterio che regola il rapporto tra accesso difensivo e tutela della segretezza industriale e commerciale.

Una simile valutazione va effettuata in concreto e verte, in particolare, sull’accertamento del nesso di strumentalità esistente tra la documentazione oggetto dell'istanza di accesso e le censure formulate nel giudizio.

Come affermato da Cons Stato, Ad. plen. n. 4 del 18 marzo 2021, in materia di accesso difensivo ai sensi dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990, deve però escludersi che sia sufficiente fare generico riferimento, nell’istanza di accesso, a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, laddove l’ostensione del documento richiesto dovrà comunque passare attraverso un rigoroso e motivato vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare.

Trova quindi conferma la tesi di maggior rigore secondo cui deve esservi un giudizio di stretto collegamento (o nesso di strumentalità necessaria) tra documentazione richiesta e situazione finale controversa: la parte interessata, in tale ottica, deve onerarsi di dimostrare in modo intelligibile il collegamento necessario fra la documentazione richiesta e le proprie difese. E tanto, come evidenziato in diverse occasioni dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, IV, 14 maggio 2014, n. 2472), attraverso una sia pur minima indicazione delle “deduzioni difensive potenzialmente esplicabili”.

In questo quadro l’onere della prova del suddetto nesso di strumentalità incombe – secondo il consueto criterio di riparto – su colui che agisce, ossia sul ricorrente (in sede procedimentale, il richiedente l’accesso agli atti).

In assenza di tale dimostrazione circa la “stretta indispensabilità” della richiesta documentazione, la domanda di accesso finisce per tradursi nel tentativo “meramente esplorativo” di conoscere tutta la documentazione versata agli atti di gara, come tale inammissibile.

Occorre tenere conto di quanto affermato dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la quale, con decisione 2 aprile 2020, n. 10, ha statuito che “il giudizio in materia di accesso, pur seguendo lo schema impugnatorio, non ha sostanzialmente natura impugnatoria, ma è rivolto all’accertamento della sussistenza o meno del diritto dell’istante all’accesso medesimo e, in tal senso, è dunque un "giudizio sul rapporto", come del resto si evince dall’art. 116, comma 4, del d. lgs. n. 104 del 2010, secondo cui il giudice, sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione dei documenti richiesti”.

Più in particolare, trattandosi di azione di condanna (quella in materia di accesso ai documenti amministrativi di cui al citato art. 116 Cod. proc. amm.), la stessa si incentra sulla spettanza o meno della richiesta di esibizione dei documenti: in caso di accertata fondatezza della pretesa del privato, il giudice condanna per l’appunto l’amministrazione soccombente ad un facere specifico ossia all’ostensione – in tutto o in parte – dei documenti richiesti (giudizio sul rapporto).

In questi termini, la valutazione sulla fondatezza dell’istanza di accesso, ossia sulla spettanza del bene anelato (offerta contenente taluni segreti tecnici), giocoforza precede quella sulla adeguata motivazione del provvedimento di rigetto dell’istanza medesima.

Un simile giudizio si concentrerà dunque preliminarmente nel considerare, nel bilanciamento tra esigenze di difesa e tutela della riservatezza commerciale e industriale, se sia stata adeguatamente evidenziata la “stretta indispensabilità” della documentazione richiesta ai fini del giudizio eventualmente in essere (ex multis, Cons. Stato, V, 21 agosto 2020, n. 5167).

Indicazione questa che grava sulla parte istante, la quale non può limitarsi a mere enunciazioni di principio o formule di stile ma che deve quanto meno anticipare le “deduzioni difensive potenzialmente esplicabili” (Cons. Stato, IV, 14 maggio 2014, n. 2472).

L’amministrazione, inoltre, non può sottrarsi al generale obbligo di motivazione dei propri provvedimenti (art. 3 l. n. 241 del 1990), atteso che in presenza di provvedimenti di rigetto scarsamente motivati al richiedente sarà pur sempre sufficiente limitarsi ad una prospettazione “minima” dei motivi potenzialmente deducibili (stretto legame tra documentazione e difese) onde ottenere l’accesso alla anelata documentazione.

In conclusione, laddove il concorrente dimostri che l’accesso è finalizzato alla difesa in giudizio (c.d. accesso difensivo) e dimostri la assoluta indispensabilità degli elementi coperti da segreto, la stazione appaltante deve consentire l'accesso all'offerta tecnica nella sua interezza, in quanto diviene recessiva la tutela della segretezza industriale e commerciale.

Appalti pubblici e misure di "self cleaning"

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Le misure c.d. di "self cleaning" hanno effetto "pro futuro", ossia per la partecipazione a gare successive alla loro messa in atto, in quanto non è previsto un effetto retroattivo. Solo dopo la loro adozione la stazione appaltante può, infatti, essere ritenuta al riparo dalla ripetizione di pratiche scorrette ad opera degli organi sociali, posto anche che l’atto sanzionatorio colpisce una condotta ormai perfezionata in ogni elemento.

Consiglio di Stato, sez. III, 10.01.2022 n. 164

Il Consiglio di Stato si è pronunciato con riguardo all’efficacia delle misure di c.d. "self cleaning"  adottate ex post, nel caso in esame consistenti nella rimozione, dopo l’apprensione della notizia di indagini penali, dei procuratori di una società e nell’adozione di iniziative propedeutiche all’adeguamento del modello di cui al d.lgs. n. 231 del 2001. Tale misure sono state ritenute non idonee  a consentire la formulazione di offerte in pubblici incanti in corso.

Nel caso in esame, l'aggiudicataria, dopo aver presentato la dichiarazione sostitutiva, ai sensi degli articoli 46 e 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 per attestare l’inesistenza di motivi di esclusione dalla procedura concorsuale ex art. 80 del Codice dei contratti, non ha fornito alla stazione appaltante alcun aggiornamento riguardo agli sviluppi di procedimenti pendenti sia davanti all’AGCM, sia davanti al Tribunale penale, nonché in ordine alle vicende professionali sopraggiunte. In conseguenza, la stazione appaltante non è stata messa in condizione di conoscere tali circostanze, necessarie per valutare il mantenimento dell'ammissione in gara della ditta, decisione prodromica all’aggiudicazione definitiva.

La Sezione ha chiarito che le linee guida contengono indirizzi tesi a dare uniformità e prevedibilità all’azione amministrativa delle stazioni appaltanti esonerandole da valutazioni complesse o stringenti oneri motivazionali laddove si verifichi la fattispecie espressamente e previamente delineata quale “adeguata” dal punto di vista probatorio, secondo un regime presuntivo che non trova applicazione in altre fattispecie (sul punto Cons. Stato Sez. III, 22 dicembre 2020, n. 8211, ma in tal senso anche Ad. Plen. n. 16/2020) in cui invece dev’essere l’amministrazione a valutare, in concreto, se e per quali motivi gli elementi raccolti depongano per un illecito professionale così grave da incidere sull’affidabilità morale o professionale dell’operatore. In tali valutazioni l’amministrazione deve ovviamente considerare i fatti emergenti dall’indagine penale, le conseguenze dell’indagine e le regole che previamente si è data, attraverso la legge di gara, per vagliare il disvalore specifico delle condotte rispetto all’instaurando rapporto contrattuale.

Tale interpretazione è l’unica conforme al diritto europeo. Secondo le ripetute indicazioni della Corte di Giustizia, il potere della stazione appaltante non può essere limitato da preclusioni poste dal diritto nazionale, ma si deve basare sull’accertamento in concreto dei fatti, rimesso esclusivamente al vaglio della stazione appaltante medesima (sul punto si veda CGUE n. C-425/18, nonché, sull’importanza che sia la stazione appaltante a effettuare in concreto anche C-41/18 del 19.06.2019).

La recente giurisprudenza del Consiglio di Stato (sent. n. 5659 del 2 agosto 2021) ha avuto modo di chiarire, in analoga vicenda, che risponde a logica, prima che alla normativa vigente, che le misure c.d. di "self cleaning" abbiano effetto pro futuro, ossia per la partecipazione a gare successive all’adozione delle misure stesse, essendo inimmaginabile un loro effetto retroattivo. Solo dopo l’adozione delle stesse la stazione appaltante può, infatti, essere ritenuta al riparo dalla ripetizione di pratiche scorrette ad opera degli stessi organi sociali, posto anche che l’atto sanzionatorio remunera una condotta ormai perfezionata in ogni elemento (in termini, Cons. Stato, Sez. V, 6.4.2020, n. 2260).

In conseguenza, il Consiglio di Stato ha accolto l'appello in quanto ha ritenuto che la stazione appaltante avrebbe dovuto escludere la concorrente che non aveva segnalato le surrichimate vicende penali.

Protocolli di legalità ed esclusione dalla gara pubblica

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         I protocolli di legalità o di integrità, stipulati ai sensi dell’art. 1, comma 17, l. n. 190 del 2012, configurano specifiche cause di esclusione dalla procedura di gara, essendo idonei (data la base giuridica fondata sulla norma di rango legislativo) a integrare il catalogo tassativo delle cause di esclusione contemplate dal d.lgs. n. 50 del 2016 .

       Le fattispecie escludenti previste dai protocolli di legalità o di integrità anticipano la soglia di tutela dell’interesse all’imparzialità e al buon andamento delle gare pubbliche in quanto non è richiesto alla stazione appaltante valutare l’effettiva incidenza delle condotte sullo svolgimento della gara, conformemente alla disciplina del conflitto di interessi di cui all’ordinamento amministrativo (art. 6-bis, l. n. 241 del 1990) e civile (art. 1394 c.c., seppur con un focus sull’art. 1471 c.c.), salvo il potere della stazione appaltante di valutare, con le regole proprie dell’istruttoria procedimentale (che si differenziano da quelle che informano l’istruttoria processuale), la riferibilità di determinate condotte al perimetro espulsivo ivi previsto e ciò sia in relazione alla regola generale che trova emersione in ambito processuale nell’art. 34, comma 2, c.p.a., sia in quanto l’attività di valutare l’ammissibilità delle domande di partecipazione a gare pubbliche è appannaggio dell’Amministrazione in base alla disciplina di settore anche di derivazione eurounitaria, in presenza di cause di esclusione facoltativa.

C.g.a. 12 gennaio 2022, n. 32 - Pres. De Nictolis, Est. Molinaro


Ha chiarito il C.g.a. che nei patti di integrità, agli obblighi comportamentali che, pur trovando la propria fonte nella clausola di leale collaborazione e nel principio di buona fede, oltre che nella normativa antimafia e dei contratti pubblici, sono circostanziati in modo tale da rendere agevole il relativo accertamento, si ricollegano conseguenze sfavorevoli in caso di violazione degli impegni assunti.
L’assunzione volontaria non solo degli specifici doveri comportamentali ivi previsti ma anche della sottoposizione alle conseguenze sfavorevoli ivi indicate consente all’Amministrazione di esercitare con agilità i poteri di accertamento (facilitati dalla tipizzazione degli impegni assunti) e i poteri di irrogazione delle conseguenze sfavorevoli (anche queste specificamente indicate).
In tal senso, i protocolli di legalità sono strumenti utili per contrastare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose nelle attività volte a sviluppare la concorrenza per il mercato (quali le procedure a evidenza pubblica), attraverso l’introduzione di clausole “sanzionatorie” (così lo stesso patto di integrità) in caso di violazione degli impegni assunti.
L’art. 1341 c.c. prevede, in caso di stipulazione di un contratto a prestazioni corrispettive, una particolare tutela della parte contrattuale che non ha predisposto unilateralmente le clausole.
In particolare si richiede, in presenza di clausole vessatorie (favorevoli al predisponente e sfavorevoli per l’altro contraente), l’inefficacia delle medesime in caso di mancanza di specifica sottoscrizione. Le clausole del patto di integrità non rientrano nel novero delle clausole vessatorie indicate nell’art. 1341 c.c.
In particolare l’art. 1341 comma 2 c.c. dispone che “in ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l'esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell'altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell'autorità giudiziaria”.
Le clausole vessatorie intervengono infatti in un rapporto pattizio, rispetto al quale la previsione di facoltà o poteri a favore di una delle parti non si accompagna a prerogative procedimentali (che invece connotano il potere amministrativo di esclusione dalla gara) atte a tutelare la posizione di controparte. Sicché esse richiedono quella particolare sottoscrizione prevista dall’art. 1341 c.c.
A fronte di ciò, invece, i patti di integrità si inseriscono nel rapporto di diritto pubblico che si crea fra la stazione appaltante e il partecipante alla gara, individuando specifiche fattispecie “sanzionatorie” nell’ambito di un procedimento che si sviluppa con le garanzie tipiche del procedimento amministrativo, sicché viene meno la tutela della parte debole (del rapporto contrattuale), atteso che tutta la disciplina del procedimento amministrativo è volta ad assicurare la valorizzazione dei partecipanti al procedimento, così sostituendo la tutela preventiva (e formale) della specifica sottoscrizione con una più pregnante forma di apprezzamento della posizione privata. Ciò è sufficiente a dimostrare l’inapplicabilità al caso de quo della disciplina di cui all’art. 1341 c.c., in ragione del rapporto di diritto pubblico in cui si inseriscono. 

 
Ha poi chiarito il C.g.a. che il potere dell’Amministrazione comprende non solo l’accertamento dei presupposti di applicazione della sanzione ma anche la scelta in ordine alla tipologia di sanzione irrogabile.
Il C.g.a. si è altresì pronunciato sulla fattispecie escludente di cui all’ art. 56, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016 (“vi sono prove di corruzione, concussione o abuso di ufficio”) e all’art. 59, d.lgs. n. 50 del 2016 (“sono considerate inammissibili le offerte in relazione alle quali la commissione giudicatrice ritenga sussistenti gli estremi per informativa alla Procura della Repubblica per reati di corruzione o fenomeni collusivi”) nel senso che: a) l’accertamento del concretizzarsi della fattispecie escludente deve essere compiuto dalla stessa Amministrazione, non configurandosi, così come dedotto dalle parti appellanti, un’ipotesi di esclusione automatica (Cons. St., A.P., n. 16 del 2020); b) l’Amministrazione è tenuta a valutare in concreto la ricorrenza del presupposto, cioè della condotta corruttiva, concussiva, di abuso o comunque collusiva dei partecipanti alla gara, e il collegamento delle condotte penalmente rilevanti con le offerte presentate e in genere con la gara.
​​​​​​​In termini analoghi il C.g.a. si è altresì pronunciato sulla fattispecie escludente di cui all’art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 richiamando, ancora una volta, l’Adunanza plenaria n. 16 del 2020.

 

Contratto di avvalimento e omessa dichiarazione di impegno

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Il  Tar Lazio, Roma, III-ter, 4 gennaio 2022, n. 53 ha esaminato le conseguenze della mancata produzione, in sede di gara pubblica, della dichiarazione di impegno dell’impresa ausiliaria richiesta dall’art. 89, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016.

IL CASO

L’aggiudicataria ha impugnato in via incidentale gli atti di una procedura di gara nella parte in cui non hanno disposto l’esclusione del Raggruppamento Temporaneo di Imprese ricorrente. Ha dedotto che la stazione appaltante avrebbe dovuto procedere all’esclusione della concorrente avendo riscontrato, in sede di apertura della busta amministrativa, la carenza della dichiarazione di impegno della ausiliaria, in quanto è stato fatto ricorso all’istituto dall’avvalimento. Ha lamentato che, invece, il RUP dapprima avrebbe illegittimamente attivato il soccorso istruttorio e che poi, dinanzi alla mancata produzione di quanto richiesto entro il termine perentorio assegnato, avrebbe inammissibilmente riesaminato il contratto di avvalimento prodotto dal RTI, ricavando dalle clausole contrattuali la dichiarazione mancante.

LA DECISIONE

Il Tar Lazio ha rilevato l’assenza originaria della dichiarazione di impegno dell’impresa ausiliaria (richiesta dall’art. 89, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016 nonché dall’avviso di gara) ed ha accolto il ricorso. A fronte dell’assenza riscontrata in sede di apertura delle buste amministrative, il RUP avrebbe dovuto disporre l’esclusione in ragione dell’essenzialità di tale dichiarazione, richiesta dalla normativa in aggiunta al contratto di avvalimento, ai fini del perfezionamento di tale istituto.

Il ricorso è stato ritenuto fondato anche con riguardo al profilo della illegittima attivazione del soccorso istruttorio e della mancata integrazione della dichiarazione, da parte della concorrente, entro il termine perentorio assegnato con il soccorso istruttorio. Nel caso oggetto del giudizio, pur a fronte dell’essenzialità della dichiarazione mancante (da sanzionarsi con l’esclusione), il RUP ha illegittimamente attivato il soccorso istruttorio per l’integrazione della dichiarazione, assegnando un termine perentorio, entro il quale tuttavia la concorrente non ha provveduto ad integrare quanto richiesto.

L’omessa produzione della documentazione oggetto di soccorso istruttorio comportava a sua volta l’esclusione del RTI, in osservanza a quanto disposto dall’art. 83, comma 9 del d.lgs. n. 50/2016 e dalla stessa legge di gara, che all’art. 11 prevedeva espressamente che “in caso di inutile decorso del termine, la stazione appaltante procede all’esclusione del concorrente dalla procedura”.

E’ stata ritenuta illegittima anche la successiva decisione del RUP di ricavare dal contratto di avvalimento la dichiarazione mancante.

Il Tar ha affermato che la dichiarazione dell’impresa ausiliaria e il contratto di avvalimento sono atti diversi e la mancanza di uno non può essere supplita dall’altro o da determinati elementi o contenuti dell’altro, in quanto la dichiarazione è un atto di assunzione unilaterale di obbligazioni nei confronti della stazione appaltante; mentre il contratto di avvalimento costituisce l’atto bilaterale di costituzione di un rapporto giuridico patrimoniale, stipulato tra l’impresa partecipante alla gara e l’impresa ausiliaria.

E’ stato poi osservato che, in concreto, il contratto di avvalimento prodotto dal RTI ricorrente non conteneva comunque alcuna clausola da cui potersi ricavare il contenuto della dichiarazione in questione.

La dichiarazione di impegno avrebbe dovuto essere presentata in sede di partecipazione, come atto distinto, seppur complementare, al contratto di avvalimento, dal quale non era in ogni caso possibile ricavare in via di interpretazione la sussistenza della prima.

 

Oneri di urbanizzazione

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Il Consiglio di Stato, sez. IV, sent n. 148/2022,  ha chiarito che ciò che rileva ai fini del calcolo del contributo di costruzione è l’oggetto sostanziale dell’intervento, questo essendo determinante per stabilire l’effettiva incidenza sul carico urbanistico.

In particolare:

a) il pagamento degli oneri di urbanizzazione è connesso all’aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo intervento, nella misura in cui da ciò deriva un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’Amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico (Cons. Stato, sez. IV, 23 febbraio 2021, n. 1586);

b) è stata ritenuta sufficiente, al fine della configurazione di un maggior carico urbanistico, la circostanza che, quale effetto dell’intervento edilizio, sia mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri riferiti all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e funzionali a sopportare l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività edilizia comporta (Cons. Stato, sez. II, 21 luglio 2021, n. 5494);

c) considerato che il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità, nel caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel momento in cui l’intervento va a determinare un aumento del carico urbanistico (Cons. Stato, sez. IV, 31 luglio 2020, n. 4877), il che può verificarsi anche nel caso in cui la ristrutturazione non interessi globalmente l’edificio, ma, a causa di lavori anche marginali, ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica (Cons. Stato, sez. IV, 31 luglio 2020, n. 4877).

In merito alla competenza comunale a determinare gli oneri di urbanizzazione, nell’ambito dei principi tracciati dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (T.U. edilizia) e dalle leggi regionali con quest’ultimo coerenti, si osserva che la Corte costituzionale, con la sentenza 10 aprile 2020, n. 64, ha affermato la natura di norma statale di principio nella materia “governo del territorio” di quella sancita dall’art. 16, comma 9, T.U. edilizia, in quanto concernente l’onerosità del titolo abilitativo. Invero, tale previsione “nel fissare una cornice entro la quale le singole Regioni possono determinare il contributo per il costo di costruzione, persegue un obiettivo di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale”, in quanto solo con la previsione di una quota minima ed inderogabile il principio di onerosità del titolo edilizio acquisisce un connotato di effettività; e ciò in quanto, ove tale previsione mancasse, il legislatore regionale sarebbe libero di prevedere interventi edilizi che non comportano alcun costo, o comportano un esborso talmente irrisorio da eludere ogni profilo di corrispettività del contributo rispetto al titolo edilizio rilasciato”. 

D’altro canto, l’art. 16, comma 10, T.U. edilizia, nel prevedere che “al fine di incentivare il recupero del patrimonio edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d), i comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori determinati per le nuove costruzioni”, facoltizza e non obbliga i Comuni a mitigare i costi di costruzione per le ipotesi di ristrutturazione. 

Prodotti con specifiche tecniche equivalenti

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Cons. St., sez. III, 7 gennaio 2021, n. 65

L’equivalenza del prodotto offerto a quello indicato nella legge di gara deve essere provata dall’interessato e non può essere demandata alla stazione appaltante, salva l’ipotesi di prodotti comunemente presenti sul mercato e di utilizzo comune, ove corredati da una scheda tecnica che ne espliciti in modo chiaro le caratteristiche e le qualità, nel qual caso la Commissione può autonomamente valutare se, nonostante la difformità rispetto a quanto richiesto dalla legge di gara, l’articolo offerto possa essere comunque considerato equivalente.

Il Codice dispone che le “caratteristiche previste per lavori, servizi e forniture” sono definite dalla stazione appaltante mediante l’individuazione di “specifiche tecniche” inserite nei documenti di gara (art. 68, comma 1), nel rispetto del canone pro-concorrenziale che garantisca in ogni caso il “pari accesso degli operatori economici alla procedura di aggiudicazione” senza comportare “direttamente o indirettamente ostacoli ingiustificati all’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza” (art. 68, comma 4) o generare artificiose o discriminatorie limitazioni nell’accesso al mercato allo scopo di favorire o svantaggiare indebitamente taluni operatori economici.

Il principio di equivalenza è stato recepito del Codice dei contratti che, all’art. 68, prevede che la stazione appaltante non possa escludere un’offerta perché non conforme alle specifiche tecniche a cui ha fatto riferimento se il prodotto offerto non è “aliud pro alio”, incontrando il concorrente che voglia presentare un prodotto (o servizio) equivalente a quello richiesto il solo limite della "difformità del bene rispetto a quello descritto dalla lex specialis", configurante ipotesi di "aliud pro alio non rimediabile" (Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2019, n. 5258).

La Sezione, per decidere il caso sottoposto al suo esame, ha richiamato la giurisprudenza del giudice di appello (sez. V, 25 agosto 2021, n. 6035; sez. III, 20 ottobre 2020, n. 6345), che ha chiarito come il principio di equivalenza permea l'intera disciplina dell'evidenza pubblica, in quanto la possibilità di ammettere alla comparazione prodotti aventi specifiche tecniche equivalenti a quelle richieste, ai fini della selezione della migliore offerta, risponde, da un lato, ai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento e di libertà d'iniziativa economica e, dall'altro, al principio euro-unitario di concorrenza, che vedono quale corollario il favor partecipationis alle pubbliche gare, mediante un legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell'amministrazione alla stregua di un criterio di ragionevolezza e proporzionalità”. Il principio di equivalenza è, dunque, finalizzato ad evitare un’irragionevole limitazione del confronto competitivo fra gli operatori economici, precludendo l’ammissibilità di offerte aventi oggetto sostanzialmente corrispondente a quello richiesto e tuttavia formalmente privo della specifica prescritta (Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2021, n. 4353).

La Sezione ha dato continuità all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’equivalenza del prodotto offerto a quello indicato nella legge di gara deve essere provata dall’interessato e non può essere demandata alla stazione appaltante, cui spetta, invece, di valutare l’effettiva sussistenza dell’equivalenza addotta dal concorrente. Ha ritenuto però che tale principio vada letto e applicato considerando la tipologia di prodotto previsto in sede di gara ed offerto come equivalente, in ragione della sua complessità e, quindi, della possibilità per la Commissione di evincere con immediatezza tale equivalenza.

In altri termini, è certo che, ad esempio, per un macchinario sanitario che abbia alcune caratteristiche tecniche diverse da quelle richieste dalla lex specialis di gara deve essere il concorrente a dimostrare, all’atto della presentazione dell’offerta tecnica, l’equivalenza; invece, a fronte di prodotti comunemente presenti sul mercato e di utilizzo comune, ove corredati da una scheda tecnica che ne espliciti in modo chiaro le caratteristiche e le qualità, la Commissione può autonomamente valutare se, nonostante la difformità rispetto a quanto richiesto dalla legge di gara, l’articolo offerto possa essere comunque considerato equivalente.

Nel caso all’esame della Sezione il concorrente (la cui aggiudicazione è stata annullata dal giudice di primo grado) ha depositato le schede tecniche del guanciale e della cover, dalle quali la Commissione ha potuto evincere le dimensioni e il materiale dei due articoli, le “caratteristiche chimiche e fisio-meccaniche” e le “caratteristiche funzionali”, con la conseguenza che, alla luce della chiara e trasparente raffigurazione della tipologia del prodotto nonché della campionatura depositata, l’Organo valutativo è stato messo in condizione di giudicare l’equivalenza dell’offerta tecnica della concorrente, dando in tal modo doverosa e legittima applicazione al Disciplinare.

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