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Diritto di accesso ai documenti detenuti dall'Agenzia delle Entrate

Primo piano delle mani che passano il contratto a un uomo d'affari irriconoscibile Foto Gratuite

Il Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 14 dicembre 2021, n. 8327, si è pronunciato sul diritto di accesso difensivo e sul rapporto con la tutela della riservatezza.

1. IL FATTO

Una società, che gestisce una gioielleria ed interessata ad acquistare l’immobile che costituisce la sede storica della propria attività, avviava trattative con la società proprietaria del locale e con i soci di maggioranza. Le trattative però non andavano a buon fine, in quanto i predetti soci di maggioranza comunicavano di avere ritenuto più conveniente realizzare il valore delle loro quote cedendole ad altri soggetti.

A seguito di questi fatti, tra le due società coinvolte nelle trattative sono nate due cause civili.

La prima è la causa civile promossa dalla proprietaria del locale contro la gioielleria per ottenere il rilascio per finita locazione dell’immobile in questione.

La seconda è la causa civile promossa dalla gioielleria nei confronti della società proprietaria del locale, dei precedenti soci e degli attuali soci, per sentir dichiarare il proprio diritto di prelazione ed esercitare il riscatto ai sensi degli artt. 38 e ss. della l. 27 luglio 1978 n.392. In sintesi estrema, la tesi sostenuta dalla gioielleria in questo giudizio è quella per cui la cessione delle quote dai precedenti soci di maggioranza ai nuovi soci simulerebbe una vendita, così realizzata allo scopo di eludere il diritto di prelazione e di riscatto del conduttore di immobile commerciale.

Allo scopo di sostenere le proprie ragioni, la gioielleria ha quindi presentato all’Agenzia delle entrate un’istanza di accesso, al fine di ottenere copia di alcuni documenti relativi alla posizione fiscale dei controinteressati in primo grado e produrli nel giudizio civile indicato. Per la precisione, la società ha elencato gli atti notarili o di dottore commercialista, specificamente individuati, con i quali sono state apparentemente compiute le cessioni delle quote della società proprietaria del locale dai precedenti soci di maggioranza ai nuovi soci, atti dei quali all’evidenza l'Agenzia dispone. Ha poi chiesto per ciascuno di questi atti: a) l’accesso alla copia dei “movimenti bancari” ovvero degli assegni bancari, in questo caso specificamente indicati, con i quali è stato eseguito il pagamento delle quote; b) l’accesso al quadro pertinente della dichiarazione dei redditi del cedente le quote, in cui questi avrebbe dovuto dichiarare il reddito corrispondente; c) l’accesso al documento, modello F24 o altro, da cui risulta il pagamento della corrispondente imposta sostitutiva dovuta sulla cessione. Ciò posto, per due degli atti di cessione, ha evidenziato che l’atto stesso, per il pagamento delle quote, faceva riferimento a non meglio precisati precedenti accordi fra le parti, e ne ha chiesto quindi copia, ove registrati.

Nell’ambito del procedimento amministrativo, con provvedimento di diniego, l’Agenzia ha negato l’accesso ed ha ribadito il diniego con successivo provvedimento negativo seguito ad un invito della Commissione ministeriale per l’accesso (adita dalla società affittuaria dopo il primo diniego), la quale invece riteneva l’accesso dovuto.

L’Agenzia ha ritenuto che i documenti a lei trasmessi “nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali di vigilanza e controllo in materia finanziaria e tributaria” sarebbero “sottratti all’accesso per ragioni di tutela della riservatezza del soggetto cui afferiscono”, e quindi potrebbero in generale essere resi accessibili solo “in presenza di un rapporto di stretta indispensabilità dei documenti richiesti per l’esercizio del diritto di difesa”, rapporto che nella specie ritiene insussistente, “tenuto conto che le esigenze difensive risultano adeguatamente tutelate dalle norme processuali che regolano i giudizi instaurati”.

Con la sentenza di primo grado, il TAR ha accolto il ricorso presentato dalla società affittuaria contro il diniego ed ha accordato l'accesso.

Contro questa sentenza hanno proposto appello al Consiglio di Stato i precedenti soci di maggioranza della società proprietaria, i nuovi soci e l’Agenzia delle entrate; tutti costoro hanno chiesto la riforma della sentenza di primo grado e che il diritto all’accesso agli atti della società affittuaria venga riconosciuto insussistente.

2. LE NORME IN BASE ALLE QUALI L'AGENZIA DELLE ENTRATE DETIENE I DOCUMENTI

Sono state individuate le norme in base alle quali l’Agenzia delle entrate può astrattamente detenere i documenti del tipo indicato dalla società istante.

Per gli atti relativi alla cessione delle quote, ove registrati, si applica l’art. 18 del T.U. Imposta di registro 26 aprile 1986 n.131, per cui “L'ufficio del registro”, ora notoriamente assorbito  dall’Agenzia delle entrate, “conserva gli originali e le copie” degli atti presentati per la registrazione e ne rilascia copia nei casi consentiti dalla legge, in particolare ove si possa esercitare il diritto di accesso.

“movimenti bancari” rientrano nella previsione dell’art. 7 comma 6 del D.P.R. 29 settembre 1973 n.605, per cui: “Le banche, la società Poste italiane Spa, gli intermediari finanziari, le imprese di investimento, gli organismi di investimento collettivo del risparmio, le società di gestione del risparmio, nonché ogni altro operatore finanziario ... sono tenuti a rilevare e a tenere in evidenza i dati identificativi, compreso il codice fiscale, di ogni soggetto che intrattenga con loro qualsiasi rapporto o effettui, per conto proprio ovvero per conto o a nome di terzi, qualsiasi operazione di natura finanziaria … l'esistenza dei rapporti e l'esistenza di qualsiasi operazione di cui al precedente periodo, compiuta al di fuori di un rapporto continuativo, nonché la natura degli stessi sono comunicate all'anagrafe tributaria, ed archiviate in apposita sezione, con l'indicazione dei dati anagrafici dei titolari e dei soggetti che intrattengono con gli operatori finanziari qualsiasi rapporto o effettuano operazioni al di fuori di un rapporto continuativo per conto proprio ovvero per conto o a nome di terzi, compreso il codice fiscale”.

La natura di documenti soggetti al diritto di accesso dei documenti relativi alle operazioni comunicate all’anagrafe tributaria ai sensi del citato art. 7 D.P.R. 605/1973 è stata affermata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, in quanto si tratta di atti utilizzabili dall'Amministrazione finanziaria per l'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, anche se non formati da essa: in tal senso, per tutte C.d.S. A.P. 25 settembre 2020 n.19, ma già negli stessi termini C.d.S. sez. IV 14 maggio 2014 n.2472.

Per i modelli di dichiarazione ai fini dell’imposta sui redditi e delle imposte sostitutive, l’art. 3 commi 1 e 12 del D.P.R. 22 luglio 1998 n.322 dispone in modo espresso che essi vadano presentati all’Agenzia.

Allo stesso modo dispongono infine per i modelli di versamento F24 l’art. 17 del d.lgs. 8 luglio 1997 n.241 e i provvedimenti di esso attuativi che di volta in volta l’Agenzia emana.

3. I PRINCIPI DI DIRITTO

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha già esaminato la questione concernente la ricognizione specifica dei poteri di valutazione dell’istanza di accesso difensivo da parte dell’amministrazione e, conseguentemente, da parte del giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso ex art. 116 c.p.a.

Il Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 7514/2020 e con le sentenze Adunanza plenaria nn. 19, 20 e 21 del 2020 e n. 4/2021:

a) ha stabilito il principio di diritto per cui “l’accesso documentale difensivo può essere esercitato indipendentemente dalla previsione e dall’esercizio dei poteri processuali di esibizione istruttoria di documenti amministrativi e di richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione nel processo civile ai sensi degli artt. 210, 211 e 213 cod. proc. civ.”;

b) l’art. 24, comma 7, della l. n. 241/1990 configura l’accesso difensivo come fattispecie autonoma, strumentale all’esercizio del diritto di difesa in giudizio, sebbene si possa prescindere dalla pendenza attuale di una causa;

c) l’accesso difensivo e i poteri processuali di acquisizione probatoria sono istituti essenzialmente diversi, ponendosi il primo come strumento complementare, e non alternativo, all’acquisizione processuale, da ciò dovendo conseguire che l’accesso non è precluso nel momento in cui il giudice della causa pendente abbia respinto richieste istruttorie con lo stesso contenuto.

d) in materia di accesso difensivo ai sensi dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990 si deve escludere che sia sufficiente nell’istanza di accesso un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poiché l’ostensione del documento richiesto passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare;

e) la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adito nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono invece svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990.

4. LA DECISIONE

Il Consiglio di Stato ha escluso che la pendenza di un giudizio civile, quindi la concreta esperibilità degli strumenti processuali volti all’acquisizione di prove, precluda in astratto l’esercizio del diritto di accesso, anche nell’ipotesi in cui il giudice di tale giudizio (come nel caso in esame) abbia respinto la richiesta di esibizione (per irrilevanza e tardività) con una decisione non ancora passata in giudicato.

Dall’esame dell’istanza di accesso agli atti inviata all’Agenzia delle è emersa la strumentalità dei documenti rispetto alla finalità espressa nel giudizio civile di dimostrare il carattere simulato del trasferimento delle quote della società proprietaria dell’immobile.

Invero, la Sezione ha ritenuto che la società istante esponeva, con dovizia di particolari e facendo riferimento al procedimento di riscatto radicato dalla stessa ditta nei confronti della società proprietaria del locale, dei nuovi e dei vecchi soci della stessa, come l’interesse ad ottenere visione e copia dei documenti e delle informazioni elencate nell’istanza fosse finalizzato ad ottenere l’accertamento della natura simulata o comunque in frode alla legge del trasferimento immobiliare effettuato mediante la cessione di quote ed il conseguente riscatto ex art. 39 l. n. 392/1978 e, pertanto, a dimostrare che il trasferimento delle quote rappresenta una mera “veste” del trasferimento immobiliare.

La società istante chiariva come tale operazione, a suo avviso, avrebbe avuto l’obiettivo:

a) di ridurre drasticamente l’impatto fiscale che avrebbe generato il trasferimento immobiliare se fosse stato fatto in modo tradizionale, anziché mediante la cessione del veicolo societario;

b) di evitare cioè, stante il valore storico dello stesso, il generarsi di una elevata plusvalenza imponibile ai fini IRES e IRAP in capo alla società venditrice;

c) di evitare la tracciabilità dei passaggi di denaro, che in effetti nella maggior parte dei casi non vengono indicati nonostante l’art. 35, comma 22, d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con legge 4 agosto 2006, n. 248 (modificato dall’art. 1, comma 48, legge 27 dicembre 2006, n. 296), imponga la tracciabilità dei pagamenti per le cessioni immobiliari, non anche per le partecipazioni societarie;

d) di regolare così, ed evidentemente, altri e diversi rapporti, a dire il vero non chiari e non palesati ma richiamati nelle singole cessioni in luogo della normale modalità di pagamento.

In conclusione, è evidente che la gioielleria ha richiesto la documentazione di tipo economico e fiscale con l’obiettivo di evincere se effettivamente vi fosse traccia dei pagamenti così come delle conseguenze fiscali degli stessi. Ciò in quanto la prova della mancata corresponsione del prezzo pattuito, ad esempio laddove il pagamento del prezzo delle compravendite fosse stato effettuato a mezzo di assegni bancari mai incassati, ovvero la non congruità del prezzo costituiscono elementi fondamentali al fine di qualificare come simulato un contratto.

5. L'INTERESSE ALL'ACCESSO AI DOCUMENTI

Stante la pendenza del giudizio civile, non vi sono dubbi in ordine alla sussistenza dei caratteri di concretezza ed attualità dell’interesse all’accesso, al riguardo non rilevando l’asserita impossibilità di produzione dei documenti nel giudizio civile in ragione delle preclusioni processuali proprie del grado di giudizio.

Sulla base di quanto affermato dall’Adunanza plenaria nella citata sentenza n. 4 del 2021 non spetta al giudice amministrativo effettuare ulteriori valutazioni sulla rilevanza dei documenti richiesti ai fini della decisione del giudizio civile instaurato, ciò spettando esclusivamente all’autorità giudiziaria investita della questione.

L’accesso non può essere negato anche se riferito a documenti di terzi, istituzionalmente detenuti dall'Agenzia delle entrate.

Invero, si osserva che nel caso di specie “non vengono in rilievo né i “dati sensibili” quali definiti dall’art. 9 del Regolamento n. 2016/679/UE del Parlamento e del Consiglio e, cioè, dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché i dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, né i dati “giudiziari” di cui al successivo art. 10 e, cioè, i dati personali relativi alle condanne penali e ai reati o a connesse misure di sicurezza, né i dati cc.dd. supersensibili di cui all’art. 60 del d. lgs. n. 196 del 2003 (cioè i dati genetici, relativi alla salute, alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona), bensì i dati personali rientranti nella tutela della riservatezza cd. finanziaria ed economica della parte controinteressata”.

Da ciò consegue che, ai fini del bilanciamento tra il diritto di accesso difensivo e la tutela della riservatezza (nella specie, cd. finanziaria ed economica), secondo la previsione dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990, non trova applicazione né il criterio della stretta indispensabilità (riferito ai dati sensibili e giudiziari) né il criterio dell'indispensabilità e della parità di rango (riferito ai dati cc.dd. supersensibili), ma il criterio generale della “necessità” ai fini della “cura” e della “difesa” di un proprio interesse giuridico, ritenuto dal legislatore tendenzialmente prevalente sulla tutela della riservatezza.

Per l’effetto, è consentito ottenere copia della documentazione economica e finanziaria detenuta dall’Agenzia delle entrate per dimostrare che la cessione delle quote dai precedenti soci di maggioranza ai nuovi soci simulerebbe una vendita, così realizzata allo scopo di eludere il diritto di prelazione e di riscatto del conduttore di immobile commerciale.

 

Danno da ritardo

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La seconda sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 8205 del 9 dicembre 2021, ha fatto il punto sulla responsabilità della Pubblica Amministrazione per danno da ritardo nell’emanazione di un provvedimento favorevole al privato, poi effettivamente emesso, e cioè nel caso in cui la pretesa al bene della vita si sia rivelata fondata, indicandone in particolare i presupposti, la natura e le conseguenze risarcitorie.

L’art. 2-bis, comma 1, L. 7 agosto 1990, n. 241 prevede la possibilità di risarcimento del danno da ritardo/inerzia dell'amministrazione nella conclusione del procedimento amministrativo non già come effetto del ritardo in sé e per sé, bensì per il fatto che la condotta inerte o tardiva dell’amministrazione sia stata causa di un danno altrimenti prodottosi nella sfera giuridica del privato che, con la propria istanza, ha dato avvio al procedimento amministrativo; il danno prodottosi nella sfera giuridica del privato, e del quale quest'ultimo deve fornire la prova sia sull’an sia sul quantum, deve essere riconducibile, secondo la verifica del nesso di causalità, al comportamento inerte ovvero all’adozione tardiva del provvedimento conclusivo del procedimento, da parte dell'amministrazione, sempreché la legge non preveda, alla scadenza del termine previsto per la conclusione del procedimento, un’ipotesi di silenzio significativo.

Recentemente, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7), in adesione all’orientamento tradizionale e maggioritario, ha ribadito in generale che la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale; è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell’art. 2056 c.c. – da ritenere espressione di un principio generale dell’ordinamento – i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 c.c.; e non anche il criterio della prevedibilità del danno previsto dall’art. 1225 c.c..

In relazione allo specifico caso – come quello di specie – del danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento autorizzativo ex art. 12, D.L.vo 29 dicembre 2003, n. 387, causativa, al privato del mancato accesso agli incentivi tariffari connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili in ragione di uno ius superveniens sfavorevole al privato, la giurisprudenza ha chiarito che con riferimento al periodo temporale nel quale hanno avuto vigenza le disposizioni sui relativi benefici, è in astratto ravvisabile il nesso di consequenzialità immediata e diretta tra la ritardata conclusione del procedimento autorizzativo e il mancato accesso agli incentivi tariffari connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili quando la mancata ammissione al regime incentivante sia stato determinato da un divieto normativo sopravvenuto che non sarebbe stato applicabile se i termini del procedimento fossero stati rispettati. Con riferimento al periodo successivo alla sopravvenienza normativa, invece, occorre stabilire se le erogazioni sarebbero comunque cessate, per la sopravvenuta abrogazione della normativa sugli incentivi, nel qual caso il pregiudizio è riconducibile alla sopravvenienza legislativa e non più imputabile all’amministrazione, oppure se l’interessato avrebbe comunque avuto diritto a mantenere il regime agevolativo, in quanto la legge, per esempio, faccia chiaramente salvi, e sottratti quindi all'abrogazione, gli incentivi già in corso di erogazione e fino al termine finale originariamente stabilito per gli stessi. In ogni caso, il danno deve essere liquidato secondo i criteri di determinazione del danno da perdita di chance, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa, e non può equivalere a quanto l’impresa istante avrebbe lucrato se avesse svolto l'attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell’amministrazione.

L'annullamento del titolo edilizio in conseguenza della violazione delle distanze minime tra il nuovo immobile e l'immobile di un terzo

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Il caso deciso dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 9 dicembre 2021, n.22  trae origine da un ricorso proposto dei proprietari di un immobile avverso una concessione edilizia rilasciata dal Comune per una nuova costruzione nella medesima strada.

I ricorrenti, in primo grado, deducevano una serie di vizi concernenti il mancato rispetto delle distanze, sia nei confronti delle costruzioni vicine che rispetto al confine con le altre proprietà, lamentando nell’insieme la violazione dell’art. 30 del d.p.r. 380/2001, degli artt. 2, 3 e 56 del regolamento edilizio del Comune di Palermo, degli artt. 873 e 878 del codice civile, dell’art. 9 del d.m. 1444/1968.

Il Tar dichiarava il ricorso di primo grado in parte inammissibile e in altra parte infondato, ritenendo che la violazione delle distanze tra le proprietà non arrecasse nessun pregiudizio alla parte ricorrente.

In appello è stata proposta la specifica censura contro la decisione di primo grado riferita alla violazione della distanza tra le costruzioni, in ordine alla quale è stato verificato, nel corso di giudizio, che non è rispettata la distanza minima di dieci metri tra due fabbricati, entrambi provvisti di finestra.

Alla luce di tale esito istruttorio la sezione interessata dell’appello rilevava come sarebbe violato l’art. 9 del d.m. 1444/1968, che tale distanza prescrive in termini inderogabili ed assoluti (il che comporterebbe l’annullamento della concessione), ma che la violazione riguardante la distanza tra la costruzione del proprio vicino e (anziché la propria) quella di un altro proprietario non direttamente confinante potrebbe non essere sufficiente a sorreggere l’interesse al ricorso.

Al cospetto di tale situazione il Consiglio di Giustizia ha sottoposto all’Adunanza Plenaria la questione della tutela del terzo a fronte di atti ampliativi della sfera di altri soggetti, nel caso di specie al cospetto di un titolo edilizio espresso che, nella legislazione della Regione Siciliana, ancora recava alla data del 2011, vigente la l.r. 71/1978, la “vecchia” denominazione di concessione edilizia mutuata dalla “storica” legge (statale) 10/1977.

La Plenaria ha esaminato la ricostruzione del quadro giurisprudenziale, dando atto di un orientamento maggioritario, per cui la vicinitas quale criterio idoneo a legittimare l’impugnazione di singoli titoli edilizi assorbe in sé anche il profilo dell’interesse al ricorso; e di un secondo indirizzo per cui la vicinitas da sola non basta a fondare anche l’interesse, dovendo il ricorrente fornire la prova concreta di un pregiudizio sofferto.

Del primo orientamento, in un panorama giurisprudenziale vastissimo, si rinvengono precedenti pressoché in tutte le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato che si occupano della materia (v. ad esempio, II, n. 2056/2021; IV, 4387/2021; VI, 6500/2021) e conferme anche nella giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione (18493 e 21740/2021). Ma anche l’altro orientamento trova seguito, per quanto forse meno frequentemente, nelle varie sezioni del Consiglio di Stato (v., per un esempio particolarmente efficace, Cons. St., IV, n. 962/2020, oltre a V, 4650/2021, VI, 4830/2017, CGA, 488/2020 e 62/2012, in quest’ultimo si legge che “l'interesse al ricorso del vicino contro provvedimenti ampliativi della posizione giuridica dei terzi in materia urbanistico/edilizia presuppone l'allegazione e la dimostrazione di un concreto pregiudizio che quel provvedimento reca alle facoltà dominicali del ricorrente”), sicché il contrasto sembrerebbe attraversare, per così dire, internamente le diverse sezioni.

L’Adunanza Plenaria ha chiarito che il ragionamento intorno all’interesse al ricorso, inteso come uno stato di fatto, si lega quindi necessariamente all’utilità ricavabile dalla tutela di annullamento e dall’effetto ripristinatorio; utilità che a sua volta è in funzione e specchio del pregiudizio sofferto. Tale pregiudizio, a fronte di un intervento edilizio contra legem è rinvenuto in giurisprudenza, non senza una serie di varianti, nel possibile deprezzamento dell’immobile, confinante o comunque contiguo, ovvero nella compromissione dei beni della salute e dell’ambiente in danno di coloro che sono in durevole rapporto con la zona interessata.

Il riferimento al godimento dell’immobile in uno con il richiamo a salute e ambiente è peraltro un piano di indagine già sufficientemente ampio ed è su di esso che la giurisprudenza ha fatto leva per ravvisare il pregiudizio sofferto dal terzo non solo ad esempio nella diminuzione di aria, luce, visuale o panorama, ma anche nelle menomazioni di valori urbanistici e nelle degradazioni dell’ambiente in conseguenza dell’aumentato carico urbanistico in termini di riduzione dei servizi pubblici, sovraffollamento, aumento del traffico (v., ancora da ultimo, Cons. St., IV, n. 6130/2021).

L’Adunanza Plenaria ha quindi formulato i seguenti principi di diritto:

a) Nei casi di impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio, riaffermata la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione e l’interesse al ricorso quali condizioni dell’azione, è necessario che il giudice accerti, anche d’ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo ed in automatico a dimostrare la sussistenza dell’interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall’atto impugnato;

b) L’interesse al ricorso correlato allo specifico pregiudizio derivante dall’intervento previsto dal titolo autorizzatorio edilizio che si assume illegittimo può comunque ricavarsi dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso;

c) L’interesse al ricorso è suscettibile di essere precisato e comprovato dal ricorrente nel corso del processo, laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o la questione rilevata d’ufficio dal giudicante, nel rispetto dell’art. 73, comma 3, c.p.a.;

d) Nelle cause in cui si lamenti l’illegittimità del titolo autorizzatorio edilizio per contrasto con le norme sulle distanze tra le costruzioni imposte da leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, non solo la violazione della distanza legale con l’immobile confinante con quello del ricorrente, ma anche quella tra detto immobile e una terza costruzione può essere rilevante ai fini dell’accertamento dell’interesse al ricorso, tutte le volte in cui da tale violazione possa discendere con l’annullamento del titolo edilizio un effetto di ripristino concretamente utile, per il ricorrente, e non meramente emulativo.

Il contenuto della relazione di stima per i conferimenti in natura nelle società per azioni è predeterminato dalla legge

La gente di affari si stringono la mano per il saluto Foto Gratuite

Con ordinanza n. 39178 del 9 dicembre 2021, la seconda sezione civile della Corte di Cassazione ha interpretato l’art. 2343 c.c.

Chi conferisce nella società per azioni beni in natura o crediti è tenuto a presentare la relazione giurata d'un esperto, designato dal presidente del tribunale nel cui circondario ha sede la società, «contenente la descrizione dei beni o dei crediti conferiti, l'attestazione che il loro valore è almeno pari quello ad essi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale o dell'eventuale sopraprezzo e i criteri di valutazione seguiti».

La medesima disciplina si applica al caso in cui si verta in materia di aumento del capitale sociale (art. 2440 c.c., il quale richiama l'art. 2343 stesso codice).

La disposizione descrive il contenuto della relazione dell'esperto e, quindi, il perimetro del mandato, da intendersi definito ex lege.

La previsione si pone a evidente garanzia dei creditori sociali e dei soci tutti, i quali debbono poter fare affidamento sulla corrispondenza alla realtà del capitale sociale, anche per quella parte di esso non conferito in denaro. 

Viene affermato il seguente principio di diritto: anche nel caso in cui il provvedimento giudiziale di designazione, ex art. 2343 c.c., contenga precisazioni o distinguo non richiesti, l'oggetto e lo scopo dell'accertamento peritale è determinato dalla legge: occorre verificare che all'apporto in natura venga assegnato un controvalore monetario non inferiore a quanto l'esperto accerti

L'integrazione postuma del requisito di partecipazione alla gara

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Cons. Stato, sez. V, 6 dicembre 2021, n.8148 ha chiarito che l'integrazione postuma del requisito di partecipazione non è ammissibile.
Un requisito richiesto dal disciplinare a pena d'esclusione dell'intera offerta, in quanto definito dall'amministrazione come requisito tecnico minimo o essenziale, deve ritenersi necessario per l'ammissione dell’offerta alla procedura di gara e non può, quindi, essere integrato successivamente all'aggiudicazione.
 
Nel caso oggetto della sentenza, il raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) aggiudicatario, in sede di partecipazione alla gara aperta per l’affidamento di lavori per il recupero e il restauro di un complesso architettonico, ha fatto valere una sola fornitura eseguita in favore di un Comune, dichiarando però il pieno possesso del requisito di partecipazione previsto dal disciplinare di gara (’“aver regolarmente eseguito, negli anni 2016-2017-2018, uno o più contratti aventi ad oggetto forniture analoghe a quelle del presente affidamento per un importo totale pari ad almeno €.600.000,00 I.V.A. esclusa”). Tale contratto, reso a comprova del requisito e già eseguito in favore del Comune, aveva ad oggetto una fornitura pari ad € 444.076,76.

Il RUP ha quindi richiesto al raggruppamento appellato di produrre ulteriori certificati relativi a contratti eseguiti negli anni 2016-2017-2018, aventi ad oggetto forniture analoghe a quelle dell'affidamento, al fine di poter soddisfare il requisito richiesto dalla lex specialis, a pena di esclusione, per un importo pari ad almeno € 600.000,00 IVA esclusa.
 
Il Consiglio di Stato, nella sentenza in esame, ha richiamato i principi stabiliti in precedenti decisioni ed in particolare che:
 
1) in sede di verifica del possesso dei titoli successivamente all'avvenuta aggiudicazione, non può escludersi il soccorso istruttorio nel caso in cui, dichiarato il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-professionale, il concorrente produca documentazione insufficiente o incompleta o errata, comunque inidonea a dimostrare il requisito così come posseduto e dichiarato all'atto di presentazione della domanda di partecipazione. Conseguentemente ben è dato alla stazione appaltante assegnare al concorrente “un termine non superiore a 10 giorni” per regolarizzare le dichiarazioni incomplete o la documentazione carente. Non è invece consentito il soccorso istruttorio attivato non tanto per integrare e chiarire la documentazione prodotta a comprova della dichiarazione, ma per rettificare il contenuto della dichiarazione medesima nella sua integralità (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 22 febbraio 2021, n. 1540).

2) non può ammettersi il soccorso istruttorio in sede di comprova dei requisiti, attesa non solo l'inesistenza della carenza di un elemento formale della domanda, ma anche la natura perentoria del relativo termine, con conseguenze immediatamente escludenti, laddove, al contrario, il soccorso istruttorio equivarrebbe ad una sostanziale rimessione in termini (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 9 luglio 2019, n. 4787).

E’ stata affermata, nel caso di specie, l'illegittimità del soccorso istruttorio attivato dal RUP in sede di comprova dei requisiti e l'impossibilità per il RTI di produrre la nuova documentazione, costituita da ulteriori tre appalti stipulati con soggetti privati, eseguiti negli anni 2016 e 2017, non spesi al momento della partecipazione alla gara.
 
E' stato infine disposto il subentro nel contratto.
 
In caso di illegittima aggiudicazione di un appalto, il ricorrente può ottenere con la sentenza (come nel caso in esame) l'integrale subentro nel contratto malamente aggiudicato dalla stazione appaltante. Ciò può ottenere anche nel caso in cui sia intervenuta la parziale realizzazione dei lavori da parte dell'illegittimo aggiudicatario; in fattispecie simili, l'amministrazione corrisponderà - in favore del ricorrente - l'equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dalla sentenza a parziale sostituzione dell'obbligo specifico di procedere al subentro nel contratto (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 26 maggio 2020, n. 3342).
 
 

Obbligo dei sanitari di sottoporsi al vaccino anti Covid 19

Il Consiglio di Stato ha respinto l'appello cautelare proposto da un operatore sanitario avverso il decreto del TAR concernente l'accertamento di inottemperanza all'obbligo vaccinale e la sospensione dall'ordine dei medici.

Il Giudice di appello ha rilevato che la prevalenza del diritto fondamentale alla salute della collettività rispetto a dubbi individuali o di gruppi di cittadini - sulla base di ragioni non scientificamente provate - assume una connotazione ancor più peculiare e dirimente allorché il rifiuto di vaccinazione sia opposto da chi, come il personale sanitario, sia - per legge e per il cd. “giuramento di Ippocrate”- tenuto in ogni modo ad adoperarsi per curare i malati, e giammai per creare o aggravare il pericolo di contagio del paziente con cui nell’esercizio della attività professionale entri in diretto contatto.

Ha poi ritenuto che la massiva vaccinazione di coloro che entrano per servizio ordinariamente in contatto con altri cittadini, specie in situazione di vulnerabilità, rappresenta una delle misure indispensabili per ridurre, anche nei giorni correnti, la nuovamente emergente moltiplicazione dei contagi, dei ricoveri, delle vittime e di potenzialmente assai pericolose nuove varianti.

Il Consiglio di Stato afferma, in conclusione, che il danno irreparabile è incomparabilmente più grave per la collettività dei pazienti e per la salute generale, rispetto a quello lamentato dall’operatore sanitario sulla base di dubbi scientifici valutati non dimostrati a fronte delle amplissimamente superiori prove, con l’erogazione di decine di milioni di vaccini solo nel nostro Paese, degli effetti positivi delle vaccinazioni sul contrasto alla pandemia e alla sue devastanti conseguenze umane, sociali e di deprivazione della solidarietà quale principio cardine della nostra Costituzione.

Cons. Stato, sez. III, 2 dicembre 2021, decreto n. 6401

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