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Categoria prevalente e scorporabili

BANDO DI GARA: offerta econonmicamente più vantaggiosa con categoria  prevalente OG6 e scorporabili OG8, OG3, OS35 - Edilbuild.it | Il portale  dell'edilizia e degli appalti

         La regola contenuta nell’art. 92, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010 - secondo cui è sufficiente la qualifica nella sola categoria prevalente, ove capiente per l’importo totale dei lavori, per colmare il deficit di qualificazione nelle categorie scorporabili - non può applicarsi alle categorie a qualificazione obbligatoria, ostandovi l’esigenza, avvertita dal legislatore con la previsione di tali categorie, di garantire il possesso di un livello minimo di qualificazione tecnica, ai fini della partecipazione alla gara e della conseguente esecuzione dei lavori

          L’art. 12, comma 2, d.l. n. 47 del 2014, nel porre un divieto all’operatore in possesso della qualificazione nella sola categoria prevalente di eseguire le lavorazioni riconducibili alla categoria OS34 “se privo delle relative adeguate qualificazioni” (lett. b), chiarisce che la qualifica nella sola categoria prevalente, anche se capiente per l’importo totale dei lavori, non consente di colmare il deficit di qualificazione nella categoria a qualificazione obbligatoria; la previsione di cui alla lett. b) del citato art. 12, comma 2, secondo cui il mancato possesso della qualificazione obbligatoria può essere sostituito dal ricorso al subappalto, rende evidente che tale istituto viene in rilievo in sede di partecipazione alla gara in quanto "sostitutivo" del requisito di qualificazione mancante.

         Il concorrente privo delle qualificazioni obbligatorie richieste dalla legge per l’esecuzione di determinate categorie di lavori, in alternativa al subappalto necessario, può ricorrere all’avvalimento oppure inserire nel RTI un operatore che sia qualificato ad eseguire le lavorazioni nella misura minima richiesta dalla legge o dal bando; se il modulo organizzativo prescelto dal concorrente per l’esecuzione dei lavori di cui alle categorie a qualificazione obbligatoria è un raggruppamento orizzontale, è necessario che ciascuna delle mandanti dello stesso possieda i requisiti nella misura minima del 10% di quelli richiesti nel bando di gara per l’impresa singola, secondo quanto previsto dall’art. 92, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010

Tar Lazio, sez. IV, 26 marzo 2022, n. 3423

La Sezione ha affermato che la riprova che non si possa prescindere da una valida attestazione SOA nella categoria a qualificazione obbligatoria nella misura richiesta dalla legge o dal bando, peraltro, è confermato dal divieto, contenuto nella previsione in esame, di eseguire le corrispondenti prestazioni da parte dell’operatore economico che ne sia privo. ​​​​​​​

Decorrenza del termine per impugnare l’aggiudicazione dell'appalto

     Scadenze fiscali ottobre 2021: le date più importanti da segnare sul  calendario

     In tema di decorrenza del termine per impugnare l’aggiudicazione di una gara d’appalto, quanto affermato dall’Adunanza plenaria n. 12 del 2 luglio 2020 non comporta necessariamente che dal complessivo termine di 30 giorni + 15 giorni ivi individuato (giusta la dilazione del termine in caso di accesso ex art. 76, comma 2, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50) debbano sottrarsi i giorni impiegati dall’impresa per formulare l’istanza di accesso. Tale tesi non pare del tutto compatibile con il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale riconosciuto dal diritto nazionale (arti. 24 Cost.) ed europeo in materia di ricorsi relativi agli appalti pubblici, finendo col porre a carico del concorrente l’onere di proporre l’accesso non solo tempestivamente, come certo l’ordinaria diligenza, prima ancora che l’art. 120, comma 5, c.p.a., gli impone di fare, ma addirittura immediatamente, senza lasciargli nemmeno un minimo ragionevole spatium deliberandi per valutare la necessità o, comunque, l’opportunità dell’accesso al fine di impugnare (laddove la stessa amministrazione, ai sensi del ricordato art. 76, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, dispone di ben quindici giorni per consentire o meno l’accesso agli atti). 

      Sebbene il nuovo codice degli appalti del 2016, in tema di accesso agli atti di gara, non abbia riprodotto la previsione del previgente art. 79, comma 5-quater, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, che assegnava al concorrente per proporre l’istanza di accesso dieci giorni a decorrere dalla ricezione delle comunicazioni di legge da parte della stazione appaltante, l’attuale disciplina deve ritenersi in continuità con quella precedente, non essendo da un lato consentito attraverso l’istanza di accesso differire ad libitum la decorrenza del termine di impugnazione, e per altro verso dovendo coniugarsi la finalità acceleratoria delle norme in tema di contenzioso sui contratti pubblici con l’esigenza di tutela del concorrente il quale abbia esercitato l’ordinaria diligenza nel chiedere l’accesso anche in relazione al termine assegnato all’amministrazione per provvedere

Cons. St., sez. III, 15 marzo 2022, n. 1792

Ha chiarito la Sezione che dal complessivo termine di 30 giorni + 15 giorni, individuato dall’Adunanza plenaria nella sentenza n. 12 del 2 luglio 2020 per la c.d. dilazione temporale in ipotesi di accesso, debbano essere sottratti i sei giorni che l’impresa concorrente ha impiegato per chiedere l’accesso agli atti significa porre a carico del concorrente l’onere di proporre l’accesso non solo tempestivamente, come certo l’ordinaria diligenza, prima ancora che l’art. 120, comma 5, c.p.a. gli impone di fare, ma addirittura immediatamente, senza lasciargli nemmeno un minimo ragionevole spatium deliberandi per valutare la necessità o, comunque, l’opportunità dell’accesso al fine di impugnare, mentre, va qui ricordato, la stessa amministrazione, ai sensi dell’art. 76, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, dispone di ben quindici giorni per consentire o meno l’accesso agli atti, al di là dell’eventuale superamento di questo termine per condotte dilatorie od ostruzionistiche.
Sotto la vigenza del precedente codice dei contratti pubblici, il termine a disposizione del privato per esercitare il proprio diritto d’accesso era stato fissato espressamente dal legislatore in 10 giorni (cfr. art. 79, comma 5-quater, del d. lgs. n. 163 del 2006).
Vero è che tale disposizione non è stata riprodotta nell’attuale codice dei contratti pubblici, ma altrettanto vero è che la Corte costituzionale ha da ultimo evidenziato come un’interpretazione conforme al contesto logico-giuridico di riferimento conduca a ritenere che la dilazione temporale del termine per la proposizione del ricorso sia «correlata all’esercizio dell’accesso nei quindici giorni previsti attualmente dall’art. 76 del vigente “secondo” cod. dei contratti pubblici (e, in precedenza, ai dieci giorni indicati invece dall’art. 79 del “primo” cod. contratti pubblici)» (Corte cost., 28 ottobre 2021, n. 204).
Esiste dunque piena continuità tra i due regimi normativi e l’istanza di accesso presentata dall’odierna appellata risulta tempestiva avuto riguardo ad entrambi.
Una diversa interpretazione, che pretenda di applicare il meccanismo della c.d. “sottrazione dei giorni” anche ad un’istanza d’accesso presentata entro un termine contenuto e ragionevole (e, comunque, non superiore ai suddetti quindici giorni), potrebbe risultare non del tutto in sintonia con i principi di legittimo affidamento e di proporzionalità.
​​​​​​​La Sezione non ignora che, in seguito alla pronuncia dell’Adunanza plenaria, esista un orientamento più rigoroso in questa materia (v., ad esempio, Cons. St., sez. V, 16 aprile 2021, n. 3127), secondo cui più tempestiva è l’istanza di accesso che il concorrente presenti una volta avuta conoscenza dell’aggiudicazione, maggiore sarà il tempo a sua disposizione per il ricorso giurisdizionale, mentre «quel che non può consentirsi è che il concorrente possa, rinviando nel tempo l’istanza di accesso agli atti di gara, posticipare a suo gradimento il termine ultimo per l’impugnazione dell’aggiudicazione» e, cioè, i 45 giorni decorrenti dalla conoscenza dell’aggiudicazione, ma nondimeno ritiene che debba essere permesso alla concorrente per poter chiedere l’accesso un congruo termine, eguale a quello assegnato all’amministrazione per consentirlo («immediatamente e comunque entro quindici giorni»: art. 76, comma 2, del d. lgs. n. 50 del 2016), senza sottrarre questi pochi giorni (nel caso di specie appena sei), invero già esigui perché contraddistinti da rigide preclusioni decadenziali ispirate in questa materia ad una evidente ratio acceleratoria, dai 45 giorni indicati dall’Adunanza plenaria, in modo da non superare così nel rispetto della stessa ratio acceleratoria, complessivamente e a tutto concedere anche nell’ipotesi di richiesto (e ottenuto) accesso, il termine ordinario massimo di 30 giorni per impugnare gli atti di gara. 

Il promissario acquirente non può impugnare atti in materia edilizia

Non può ritenersi legittimato ad impugnare il provvedimento, con il quale un Comune ha annullato in autotutela un piano di lottizzazione, il promissario acquirente del terreno interessato dal medesimo piano di lottizzazione, ove questi, nonostante la stipula del contratto preliminare di compravendita dell'area, non abbia acquisito la effettiva e materiale disponibilità del terreno stesso (che si potrebbe configurare in caso di preliminare cd. "ad effetti anticipati", con il quale quantomeno si anticipa l'effetto della consegna dell'immobile)

Cons. St., sez. VI, 14 marzo 2022, n. 1768 

Ha ricordato la Sezione che il Consiglio di Stato ha chiarito in maniera più specifica la reale situazione ricoperta dal promissario acquirente in un passaggio della motivazione della sentenza n. 6961 del 14 ottobre 2019 secondo cui “Rispetto agli interessi pretensivi, il potere di conformazione e di autorizzazione edilizia investe infatti in via diretta ed esclusiva il proprietario della res, in capo al quale l’interesse si appunta, mentre il vincolo obbligatorio che si instaura tra il promittente venditore ed il promissario acquirente fa sì che le modalità di esercizio del potere riverberino, sulla posizione del secondo, effetti solo indiretti relegando la posizione di quest’ultimo, nell’ambito della relazione pubblicistica, a quella di titolare di un mero interesse di fatto. Tali effetti indiretti rilevano invece sul piano civilistico dell’esatto adempimento e quindi nell’ambito della relazione contrattuale, giammai in seno alla relazione procedimentale dove il proprietario resta l’interlocutore esclusivo della vicenda dinamica del potere. Ne discende che rispetto a tutti gli interventi edilizi via via autorizzati sulle unità immobiliari promesse in vendita, l’odierno appellante [in quel giudizio: n.d.r.] è privo di una situazione giuridica soggettiva idonea a differenziarne la posizione e quindi a radicarne la legittimazione, non potendosi ritenere idoneo a tale scopo il mero vincolo obbligatorio che ha ad oggetto la prestazione (nella specie del consenso richiesto per il perfezionamento del contratto) non l’esercizio di un potere”. 

Concessione di spazi pubblicitari e revisione del prezzo

Affissioni.it

La qualificazione della concessione degli spazi pubblicitari destinati alla affissione privata va ricondotta alla concessione di bene pubblico e non alla concessione di servizi.

C.g.a. 16 marzo 2022, n. 306

 Il Cga si è pronunciato sulla richiesta avanzata da una società di procedere alla rideterminazione delle condizioni di equilibrio della concessione ai sensi dell’art. 165, d.lgs. n. 50 del 2016 e/o alla revisione del prezzo e/o all’adeguamento del contratto (reductio ad aequitatem), ai sensi degli artt. 1664 c.c. e 1467, comma, 3 c.c., per il verificarsi di fatti non riconducibili alla società aggiudicataria e del tutto imprevisti ed imprevedibili (emergenza sanitaria da Covid-19), 

Il ricorso è stato respinto in quanto:  

a) la qualificazione della concessione degli spazi pubblicitari destinati alla affissione privata va ricondotta alla concessione di bene pubblico e non alla concessione di servizi; 

b) ciò, tra l’altro, in quanto:  

- si tratta di un contratto attivo dell’Amministrazione, alla quale viene pagato un prezzo da parte del concessionario per l’utilità ricevuta, e che pertanto non è connotato dal rischio operativo; 

- oggetto del rapporto negoziale non è un servizio: né un servizio strumentale alle esigenze di gestione del Comune, né un servizio pubblico reso all’utenza per la soddisfazione di interessi generali o comunque per le finalità ritenute meritevoli di tutela e di cui l’Amministrazione abbia ritenuto di farsi carico e di erogare o comunque di gestirne l’erogazione; 

- le società concessionarie svolgono l’attività pubblicitaria a vantaggio di terzi erogando una prestazione tipicamente oggetto di un mercato concorrenziale e rispetto alla quale l’Ente pubblico si limita a offrire uno spazio ulteriore per la relativa erogazione; 

- l’attività che viene compiuta negli spazi pubblicitari non è, in quanto tale, un’attività dell’Amministrazione (nel senso che essa non compie attività pubblicitaria, né la organizza, limitandosi a fornire alcuni degli spazi ad essa dedicati), non domina quindi l’aspetto della concessione di servizi, nella quale il godimento del bene è solo uno degli elementi del contratto di servizio: piuttosto il godimento del bene, e i vincoli che questo comporta, costituisce l’oggetto principale del contratto. 

Il Cga si è altresì pronunciato in senso contrario all’applicabilità alle concessioni (di beni), per effetto del richiamo contenuto al comma 8 dell’articolo 30 del d. lgs. n. 50 del 2016, degli artt. 1664 e 1467 c.c., in quanto: 

a) i rimedi di cui agli artt. 1467 e 1664 c.c. attengono alla fase esecutiva del rapporto contrattuale prevedendo che eventuali elementi imprevedibili che si siano verificati nel corso della medesima possano rilevare, in funzione manutentiva o estintiva, così superando il carattere vincolante del contratto; 

b) essi non trovano un esplicito ostacolo nella diversa disciplina delle sopravvenienze dettata dal d. lgs. n. 50 del 2016, in quanto ai contratti attivi si applicano i principi relativi alle procedure di affidamento del contratto, non all’esecuzione del medesimo, e costituiscono espressione della tematica della gestione delle sopravvenienze e dell’eccessiva onerosità sopravvenuta che si pone in relazione a quei contratti la cui esecuzione non risulta contestuale alla loro stipula. 

c) con specifico riferimento all’istituto della concessione: 

- la concessione, pur essendo connotata da un effetto non autoritativo nei confronti del destinatario (che ha presentato istanza di concessione), è in ogni caso un provvedimento amministrativo posto che, come tutti i provvedimenti amministrativi, costituisce il risultato del bilanciamento fra gli interessi coinvolti; 

- detti aspetti depongono per un inquadramento sensibilmente pubblicistico dell’istituto, che infatti si muove tipicamente nei limiti dettati dal principio di legalità, nel senso che, in termini generali, la riserva trova fondamento in una norma di legge e così il potere di concederla ad altri; 

- non fa venir meno la connotazione pubblicistica del rapporto concessorio la circostanza che debba applicarsi la procedura a evidenza pubblica per addivenire alla scelta del concessionario, dal momento che i contratti a evidenza pubblica sono una categoria procedimentale, che dal punto di vista sostanziale può essere applicata a contratti diversi, ordinari, speciali e a oggetto pubblico; 

- la concessione instaura un rapporto di diritto pubblico fra Amministrazione concedente e concessionario, che rivestono (la prima) una posizione autoritativa che si compendia in una situazione di interesse legittimo (del secondo), che si connota anche di profili patrimoniali, regolati nell’ambito della convenzione stipulata fra i due enti; 

- la connotazione pubblicistica dell’istituto della concessione di beni e la devoluzione della materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo possono far ritenere che non siano applicabili gli istituti civilistici richiamati dall’appellante al rapporto concessorio, se non con riferimento ai principi ad essi sottesi e alle istanze di buona fede quale canone relazionale generale, indicato anche dall’art. 1 comma 2-bis della legge n. 241 del 1990 con specifico riferimento ai rapporti tra il cittadino e l’Amministrazione. 

Sulla base di tali premesse il Cga ha negato l’applicabilità alla concessione di beni degli istituti disciplinati dall’art. 1467 c.c. e dall’art. 1664 c.c. in quanto: 

a) nel caso di specie le condizioni economiche sono mutate, per cause ascrivibili essenzialmente all’emergenza pandemica, già prima della stipulazione del contratto, così riconoscendo al privato aggiudicatario la possibilità, riconosciuta espressamente dall’art. 32, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016 ma espressione di un principio generale di buona fede (in forza del quale la proposta contrattuale è irrevocabile per un tempo definito, ai sensi dell’art. 1328, in ragione della tutela della libertà contrattuale), di sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto allorquando sia decorso il termine di sessanta giorni da quando l’aggiudicazione è divenuta efficace, come nel caso di specie; 

b) più in generale l’art. 1467, rimedio generale applicabile a tutti i contratti a esecuzione continuata, periodica, prolungata o differita, contiene un rimedio estintivo, che lascia alla sola volontà di controparte l’attivazione dell’istituto manutentivo della modifica equa delle condizioni contrattuali; 

c) il rimedio manutentivo di cui all’art. 1467 c.c., quindi, non può essere invocato direttamente dalla parte che subisce il peggioramento imprevedibile delle condizioni contrattuali, potendo essa domandare la risoluzione, laddove la controparte può impedirla, modificando equamente le condizioni del contratto; 

d) l’art. 1664 c.c. è espressione del medesimo principio generale dell’eccessiva onerosità di cui all’art. 1467 c.c.; 

e) le due norme si distinguono in relazione all’ambito di applicazione e ai rimedi che le stesse forniscono, atteso che l’art. 1664 c.c. risulta avere una portata circoscritta, potendo trovare applicazione, almeno secondo l’opinione tradizionale, nell’ambito del contratto di appalto e in relazione a quelle circostanze sopravvenute che soddisfano i presupposti da questa individuati; 

f) gli istituti di cui all’art. 1467 c.c. e di cui all’art. 1664 c.c. si distinguono anche in relazione agli effetti da queste derivanti: l’art. 1467 c.c., infatti, individua la risoluzione del contratto come principale rimedio all’eccessiva onerosità sopravvenuta, rimettendo la possibilità di ricondurre il contratto ad equità all’iniziativa della parte nei cui confronti è stata chiesta la risoluzione mentre l’art. 1664 c.c. prevede l’adeguamento del contratto come unica soluzione al sopraggiungere di circostanze sopravvenute in grado di incidere sull’equilibrio delle prestazioni; 

g) la qualificazione dell’oggetto della gara in termini di concessione di bene, nella quale lo svolgimento dell’attività non costituisce l’oggetto diretto del rapporto negoziale ma la sola finalità vincolata dell’uso del bene, osta all’applicazione dell’istituto di cui all’art. 1664 c.c. 

Sulla legittimazione a richiedere il permesso di costruire

 Varianti al permesso di costruire | Salvis Juribus

Ai sensi dell’art. 11, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il permesso di costruire può essere rilasciato non solo al proprietario dell’immobile, ma a chiunque abbia titolo per richiederlo, e tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario 

          L’onere di verifica del Comune sulla legittimazione a richiedere il permesso di costruire, di cui all’art. 11, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, assume connotati differenti a seconda che la detta legittimazione si fondi sulla titolarità di un diritto reale, ovvero attenga ad una disponibilità del bene a titolo diverso. In tale ultimo caso (ad esempio, bene detenuto per effetto di contratto di locazione), l’Amministrazione è tenuta ad accertare la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, non potrà procedere al rilascio del permesso di costruire.  

Cons. Stato, sez. IV, 15 marzo 2022, n. 1827

  Ha chiarito la Sezione che ciò comporta, per un verso, che chi richiede il titolo autorizzatorio edilizio deve comprovare la propria legittimazione all’istanza, per altro verso, che è onere del Comune ricercare la sussistenza di un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che fondi una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto e bene oggetto dell’intervento, e che dunque possa renderlo destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio. Tale verifica, tuttavia, deve compiersi secondo un criterio di ragionevolezza e secondo dati di comune esperienza, con la conseguenza che l’Amministrazione, quando venga a conoscenza dell’esistenza di contestazioni sul diritto di richiedere il titolo abilitativo, deve compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, ma senza tuttavia assumere valutazioni di tipo civilistico sulla “pienezza” del titolo di legittimazione addotto dal richiedente. 

S.C.I.A. e tutela del terzo

Tutto su Permesso di costruire, Segnalazioni (S.C.I.A., S.C.A.),  Comunicazioni (C.I.L., C.I.L.A.) ed Edilizia libera

              In materia di rimedi a tutela della posizione di chi si assuma leso dall’attività edilizia posta in essere da altri sulla base di una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 45 del 13 marzo 2019 vanno privilegiate soluzioni interpretative che evitino un eccessivo sacrificio delle esigenze di tutela di tale soggetto; pertanto, sulla base dell’art. 19, l. 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.i., è possibile individuare in capo alla p.a. un duplice ordine di poteri: gli ordinari poteri di vigilanza e inibitori sull’attività avviata dal segnalante, esercitabili nei termini perentori di cui ai commi 3 e 6-bis del predetto articolo, e il potere di autotutela di cui all’articolo 21-nonies, espressamente fatto salvo dal successivo comma 4 ed esercitabile anche dopo la scadenza dei detti termini; a norma del comma 6-ter, il privato interessato può invitare l’amministrazione a esercitare i poteri ordinari entro il termine, e in caso di inerzia attivare i rimedi processuali avverso il silenzio-inadempimento dell’amministrazione, ma ciò non esclude che egli possa, anche dopo la scadenza del termine, sollecitare l’esercizio del potere di autotutela ove ricorrano i presupposti di cui al citato art. 21-nonies.

           L’autotutela in materia di attività edilizia eseguita sulla base di una SCIA, di cui al comma 4 dell’art. 19, l. 7 agosto 1990, n. 241, presenta alcune peculiarità rispetto al generale potere di autotutela, in quanto, mentre di regola si assume che questo sia ampiamente discrezionale nell’apprezzamento dell’interesse pubblico che può imporne l’esercizio e non coercibile (al punto che la p.a. non ha neanche l’obbligo di rispondere a eventuali istanze con cui il privato ne solleciti l’esercizio), ciò non vale in questo caso laddove, anche per l’intima connessione di tale potere col più generale dovere di vigilanza che incombe al Comune sull’attività edilizia ai fini dell’ordinato assetto del territorio, a fronte di un’istanza di intervento ai sensi dell’art. 19, comma 4, l’Amministrazione ha il dovere di rispondere, essendo la sua discrezionalità limitata solo alla verifica della sussistenza o meno dei presupposti di cui all’art. 21-nonies.

Cons. St., sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737

  La sentenza della Corte costituzionale ha affrontato la questione di legittimità costituzionale del comma 6-ter dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, il quale comma, chiarito che la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili, attribuisce al terzo interessato la facoltà di sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a. Nulla prevede la disposizione circa il termine entro cui va avanzata la sollecitazione e, quindi, entro cui vanno esercitati i poteri di verifica.

Ebbene, la sentenza della Corte costituzionale, intervenuta nel corso del giudizio di primo grado, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale poste, ha chiarito che il comma 6-ter - introdotto nel 2011 - dell’art. 19 della legge n. 241/1990 è conforme a Costituzione. Tale comma ha escluso l’esistenza di atti amministrativi impugnabili (il cosiddetto silenzio-diniego) a fronte dei solleciti degli interessati in presenza di DIA/SCIA presentate da terzi e ha quindi limitato le possibilità di tutela del terzo all’azione contro il silenzio, inteso in modo tradizionale come inadempimento.

La sentenza della Corte costituzionale ha inoltre chiarito che il termine entro cui gli interessati possono produrre osservazioni sollecitando interventi dell’amministrazione – senza il quale si avrebbe un potere temporalmente illimitato e in bianco, in manifesto contrasto con il principio di legalità-tipicità - è correlato alle verifiche cui è chiamata l’amministrazione ex art. 19, da esercitarsi entro i sessanta o trenta giorni (questi ultimi per i casi di SCIA in materia edilizia) decorrenti dalla data di presentazione della SCIA (commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma 4, che rinvia all’art. 21-nonies).

Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo.

Segnatamente, la Corte ha ricordato che il comma 3 dell’art. 19 attribuisce alla p.a. un triplice ordine di poteri (inibitori, repressivi e conformativi), esercitabili entro il termine ordinario di sessanta giorni dalla presentazione della SCIA (trenta per la SCIA in materia edilizia); mentre il successivo comma 4 prevede che, decorso tale termine, quei poteri sono ancora esercitabili in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-nonies della stessa legge n. 241 del 1990.

Quest’ultimo, a sua volta, disciplina l’annullamento in autotutela di atti illegittimi, stabilendo che debba sussistere un interesse pubblico ulteriore rispetto al ripristino della legalità, che si operi un bilanciamento fra gli interessi coinvolti e che, per i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati, il potere debba essere esercitato entro il termine massimo di diciotto mesi.

Il comma 6-bis dell’art. 19 consente di applicare questa disciplina anche alla SCIA edilizia, prevedendo che restano ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e dalle leggi regionali. La Corte ha inoltre sottolineato che è a questi poteri che deve ritenersi faccia riferimento il comma 6-ter.

La sentenza n. 45/2019 ha riconosciuto che possa comunque sussistere un vulnus alla situazione giuridica soggettiva del terzo, che ciò trascenda la norma impugnata e che esso vada affrontato in una prospettiva più ampia e sistemica che tenga conto dell’insieme degli strumenti apprestati a tutela della situazione giuridica del terzo. Si è quindi soffermata sui rimedi a tutela dell’interesse legittimo del terzo, per annotare conclusivamente che tutto ciò non esclude l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere.

La piana lettura della sentenza della Corte costituzionale fa emergere l’esigenza che, anche in sede interpretativa, vengano privilegiate soluzioni che evitino un irragionevole sacrificio degli interessi del terzo e scongiurino il rischio del vulnus paventato. Insieme, la sentenza dà risalto alla piena compatibilità e complementarietà dei due rimedi: l’esercizio dei poteri inibitori, repressivi e conformativi, entro trenta giorni dalla presentazione della SCIA in materia edilizia, e quello dell’autotutela di cui all’articolo 21-nonies.

Vanno quindi messi a raffronto due disposizioni dell’art. 19 della legge n. 241: il comma 4 che, decorso il termine (in questo caso) di 30 giorni, consente comunque all’amministrazione di esercitare il proprio potere in autotutela secondo quanto previsto dall’art. 21-nonies; il comma 6-ter, che consente il sollecito da parte degli interessati delle verifiche da parte dell’amministrazione che, ove non disposto, è azionabile esclusivamente con il rito avverso il silenzio, dal momento che la SCIA e la DIA non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili.

Peraltro, in tal modo non viene preclusa, per una precisa scelta legislativa, la possibilità per il terzo di richiedere l’intervento in autotutela da parte dell’amministrazione, alle condizioni e nei tempi previsti dall’art. 21-nonies della legge n. 241, cui rinvia l’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990.

Ove l’amministrazione adotti un provvedimento di rigetto dell’istanza del terzo, volta a ottenere l’esercizio del potere in autotutela, il terzo medesimo può fare valere in giudizio le proprie ragioni avverse.

 

 

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