Danno da ritardo
La seconda sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 8205 del 9 dicembre 2021, ha fatto il punto sulla responsabilità della Pubblica Amministrazione per danno da ritardo nell’emanazione di un provvedimento favorevole al privato, poi effettivamente emesso, e cioè nel caso in cui la pretesa al bene della vita si sia rivelata fondata, indicandone in particolare i presupposti, la natura e le conseguenze risarcitorie.
L’art. 2-bis, comma 1, L. 7 agosto 1990, n. 241 prevede la possibilità di risarcimento del danno da ritardo/inerzia dell'amministrazione nella conclusione del procedimento amministrativo non già come effetto del ritardo in sé e per sé, bensì per il fatto che la condotta inerte o tardiva dell’amministrazione sia stata causa di un danno altrimenti prodottosi nella sfera giuridica del privato che, con la propria istanza, ha dato avvio al procedimento amministrativo; il danno prodottosi nella sfera giuridica del privato, e del quale quest'ultimo deve fornire la prova sia sull’an sia sul quantum, deve essere riconducibile, secondo la verifica del nesso di causalità, al comportamento inerte ovvero all’adozione tardiva del provvedimento conclusivo del procedimento, da parte dell'amministrazione, sempreché la legge non preveda, alla scadenza del termine previsto per la conclusione del procedimento, un’ipotesi di silenzio significativo.
Recentemente, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7), in adesione all’orientamento tradizionale e maggioritario, ha ribadito in generale che la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale; è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell’art. 2056 c.c. – da ritenere espressione di un principio generale dell’ordinamento – i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 c.c.; e non anche il criterio della prevedibilità del danno previsto dall’art. 1225 c.c..
In relazione allo specifico caso – come quello di specie – del danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento autorizzativo ex art. 12, D.L.vo 29 dicembre 2003, n. 387, causativa, al privato del mancato accesso agli incentivi tariffari connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili in ragione di uno ius superveniens sfavorevole al privato, la giurisprudenza ha chiarito che con riferimento al periodo temporale nel quale hanno avuto vigenza le disposizioni sui relativi benefici, è in astratto ravvisabile il nesso di consequenzialità immediata e diretta tra la ritardata conclusione del procedimento autorizzativo e il mancato accesso agli incentivi tariffari connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili quando la mancata ammissione al regime incentivante sia stato determinato da un divieto normativo sopravvenuto che non sarebbe stato applicabile se i termini del procedimento fossero stati rispettati. Con riferimento al periodo successivo alla sopravvenienza normativa, invece, occorre stabilire se le erogazioni sarebbero comunque cessate, per la sopravvenuta abrogazione della normativa sugli incentivi, nel qual caso il pregiudizio è riconducibile alla sopravvenienza legislativa e non più imputabile all’amministrazione, oppure se l’interessato avrebbe comunque avuto diritto a mantenere il regime agevolativo, in quanto la legge, per esempio, faccia chiaramente salvi, e sottratti quindi all'abrogazione, gli incentivi già in corso di erogazione e fino al termine finale originariamente stabilito per gli stessi. In ogni caso, il danno deve essere liquidato secondo i criteri di determinazione del danno da perdita di chance, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa, e non può equivalere a quanto l’impresa istante avrebbe lucrato se avesse svolto l'attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell’amministrazione.